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RISULATI UFFICIALI DEL CONCORSO LETTERARIO NAZIONALE

"PAROLE SUL MARE"

 

I Edizione
"IL VIAGGIO"

NARRATIVA

1) L'ultimo Treno

2) Rotta verso Mahon

3) La vista dell'alce
4) Trenta tramonti

5) Il viaggio

6) Viaggio nella notte

POESIA

1) Emigrante a vent'anni

2) La tua ora

3) Come Ulisse

4) Millenovecentoquarantacinque
5) Memoria

6) La principessa e la migrante

CONCORSO LETTERARIO “PAROLE SUL MARE”

I EDIZIONE

TEMA “IL VIAGGIO”

SEZIONE NARRATIVA

 

PRIMO CLASSIFICATO

FERDINANDO DE BLASIO DI PALIZZI di Torino

 

La caduta

 

Igor passò la mano coperta dal guanto sul vetro appannato.
Attraverso quella striscia trasparente poteva vedere tutto il suo mondo che andava in pezzi.

In lontananza, oltre la campagna scura e a tratti devastata, le luci della capitale morente andavano spegnendosi una ad una, e là dov’era già buio gli scheletri orrendi delle case venivano rischiarati da lampi di bombe. Era tutto finito.
Il convoglio procedeva lentamente, la lanterna appesa al centro dello scompartimento dondolava assecondandone i movimenti, così che la luce e le ombre proiettate tutt’intorno si muovevano, allungandosi e rincorrendosi senza mai raggiungersi. Seduta davanti a lui, una donna, no, una ragazza dai fianchi larghi e il volto provato, tentava di far tacere il fagotto che teneva in grembo, offrendogli un seno arido che quello rifiutava strillando più forte. La ragazza alzò gli occhi, verdi e lustri, ma come offuscati da una stanchezza infinita, implorando con lo sguardo indulgenza e comprensione dagli altri viaggiatori. L’altro passeggero, un uomo di mezza età, fumatore a giudicare dai baffi a spazzola ingialliti dal tabacco, s’alzò nervoso e uscì dallo scompartimento.
Igor si limitò a rivolgerle un sorriso amaro, poi si strinse nel cappotto, si appoggiò con la schiena al sedile e scivolò fino a toccare con la testa il finestrino.
L’Irmeria stava infine per capitolare; il sogno del suo amato Comandante, una visione così potente da infiammare gli animi al solo pensiero, s’era dissolto come nebbia mattutina a un passo dalla sua realizzazione e aveva lasciato Igor e quelli come lui, che a quel sogno s’erano votati interamente, svuotati e confusi.
Con un gesto meccanico, quasi senza accorgersene, fece scivolare una mano sotto la falda sinistra del cappotto, scavalcò la fondina con la pistola e rovistò nella tasca interna fino a toccare il biglietto. Lo estrasse e lo aprì con discrezione quanto bastava per leggerne il contenuto, che sapeva ormai a memoria: “Esercito in rotta. Quartier generale tace”.
In quelle parole era racchiuso il suo destino e il destino di tutta l’Irmeria; erano il riassunto di una condanna che avrebbero scontato tutti quanti, colpevoli di aver osato, creduto, e poco importava quanto ciascuno di essi avesse partecipato a quel sogno collettivo: ognuno sarebbe stato punito col massimo della pena.
Un lungo fischio lo tirò fuori per i capelli dalla burrasca dei sui pensieri; il treno rallentò ulteriormente la corsa, si fermò. Igor non parve preoccuparsene troppo, poteva trattarsi di una mandria di mucche (o di una singola mucca molto ostinata) ferma sui binari; di un problema alla caldaia del reperto dell’archeologia ferroviaria su si trovavano; di un controllo improvviso da cui però lui nulla aveva da temere: era poco conosciuto perfino tra i suoi stessi compagni e il documento falso che si era procurato, uno scrupolo che solo pochi giorni prima avrebbe considerato inutile, avrebbe fatto il resto.
Di nuovo poggiò la testa al finestrino, inclinandola un poco di lato in modo da poter guardare di taglio fino a scorgere lontana la punta del convoglio, dove la locomotiva sbuffava scampoli di vapore e dove alcune ombre s’andavano lentamente radunando. All’orizzonte la lama fredda dell’alba incideva la notte con un taglio netto, separando di nuovo la terra ed il cielo che fino ad allora erano stati un tutt’uno indistinto. Fu questa la cosa che più colpì Igor, che fino a quel momento pensava che mai e poi mai avrebbe potuto esistere un domani e che il mondo si sarebbe interamente consumato nell’eternità di quella notte.
Passarono alcuni minuti, durante i quali il cielo da quel taglio prese a sanguinare tingendosi si rosa, e le stelle andarono scolorendosi una alla volta fino a scomparire. Perso e sconvolto nell’estasi di quel momento, non si accorse che l’altro passeggero aveva fatto ritorno, e ora parlottava concitato con altre due figure nascoste nella penombra del corridoio del vagone, scrutandolo di quando in quando al riparo del quadrato di vetro della porta dello scompartimento.
La maniglia si piegò, la porta si aprì verso l’interno urtando la donna il cui bambino, da qualche istante finalmente quieto, riprese a strillare.
Igor sembrò cadere dalle nuvole, ché non s’era accorto degli uomini in uniforme che avevano fatto il loro ingresso. Parlavano un Irmero stentato, largamente mescolato a voci di una lingua che Igor aveva udito troppe volte, e di cui tuttavia disconosceva il significato. Esibì il documento, unica parola di cui il senso era indubbio, che uno dei due militari afferrò con la mano libera dal fucile.
Lo guardarono e si guardarono tra loro, per un attimo forse incerti sul da farsi, forse colti in contropiede da un documento che pareva autentico. Infine lo pregarono di alzarsi e seguirli.
Stupito, ma abituato ad eseguire gli ordini, Igor si piegò per recuperare la propria valigia da sotto il sedile, quelli però gli fecero cenno di lasciar stare. Igor sospirò di sollievo: doveva trattarsi di un semplice controllo, in fondo, il fatto che gli avessero detto di abbandonare il bagaglio significava di certo che avrebbe potuto farvi ritorno in fretta.
Scesero dal vagone accompagnati dal ticchettio della scaletta di metallo, lui nel mezzo e i soldati al suo fianco, avvolti dal gelo di quell’alba acerba, e si scostarono dal convoglio di alcuni passi, fino al punto in cui un terzo soldato li attendeva reggendo una lanterna.
Igor tese la mano, speranzoso di riavere il suo documento prezioso, che però osservò con la fronte aggrottata mentre scompariva all’interno della giubba voluminosa del militare, il quale, sorridendo, col palmo della mano gli fece cenno di pazientare qualche istante.
Pochi attimi più tardi, sotto i suoi occhi che s’andavano gonfiando di lacrime, il treno su cui viaggiavano le speranze di Igor si mise in moto, portandole via con sé. Il terzo soldato, intanto, gli aveva messo una mano sotto il capotto, sottraendogli l’arma a cui il pensiero era già corso, se non per dare battaglia, almeno per non concedere soddisfazioni.

 

Sugli occhi grigi di Igor arrivarono i raggi del sole,
troppo tardi perché Igor potesse vederli.

 

 

 

SECONDO CLASSIFICATO

PAOLO PELLARINI di Tarcento (Udine)

 

Rotta verso Mahon

 

Porto di Livorno 29 dicembre 1799.

La Dama Veneta, un vascello della Marina commerciale austriaca, con un equipaggio di dieci uomini, si affiancava sul molo accanto alla nave Lefter proveniente da Trinità. Il giorno dopo giunse da Gibilterra lo scunner americano “la Berly” di Charleston che aveva impiegato 63 giorni per la traversata dell’oceano e la nave polacca “Madonna d’Idria” proveniente dal Volo (Dalmazia) con un carico di grano. In porto c’era un intenso movimento di tartane, brigantini, fregate ma anche di uomini e merci. Erano in partenza la fregata napoletana “La fortuna” e la fregata inglese “La Penelope”. In serata partì lo sciabecco imperiale.

In città era giunta la notizia della morte del pontefice Pio VI e della elezione del nuovo papa nella persona del cardinale Gregorio Barnaba Chiaromonti, che prese il nome di Pio VII. Un invito sacro del 24 marzo ricordava al popolo della città e dei sobborghi che nella Collegiata si sarebbe tenuto un triduo con l’esposizione dell’Augustissimo Sacramento per impetrare dal Signore la celeste benedizione sopra le armi Austro imperiali in guerra contro Napoleone. Il capitano della Dama Veneta era venuto a conoscenza del proclama del Barone De Melas commendatore dell’Ordine militare di Maria Teresa dove si proibiva il traffico di vettovaglie e di granaglie o mercanzie con gli Stati genovesi per non aiutare l’armata francese, che col generale Massena e seimila uomini intendeva mettere a ferro e fuoco Fontanabuona.

Il capitano a primavera convocò l’equipaggio, verificò che il carico di marmo fosse ben fissato e ordinò di liberare gli ormeggi, sciogliere le vele e verificare lo scandaglio. Il timoniere Giacomo seguì la rotta del convoglio inglese di quindici bastimenti (guidato da un brich di comando) che entrava nella zona di guerra. Lo scrivano indicò sul rollo di mare la situazione…Ora dodici, miglia 3, passi 4, corsa corretta, ponente libeccio, venti ostro, deriva un quarto. Gorgona scirocco un quarto levante Capraia ostro Capo Corso, ostro un quarto libeccio… Il nocchiere Francesco ordinò dischiudere le vele di straglio, di metter mano ai terzaroli e di abbassare la gabbia dell’albero maestro. Dopo aver superato la Corsica, la pioggia battente e il vento abbatterono l’albero di contramezzana che cade sul ponte: per fortuna la nave era in vista di Mahon. La pioggia era cessata e tornato il sereno ma le poche bordate di vento richiesero diverse manovre per entrare dalla parte della torre del Fanale. I marinai ammainarono la gabbia e fissarono la sagola al palo di mezzo. Lo scrivano sul diario di bordo annotò… Calma di vento con tutte le vele… al tramontar del sole il capo meridionale per greco per un quarto di passi dallo scoglietto vicino al porto. Alle 8 e mezzo vento da ponente libeccio tenendo corsa per stazza. Alla mezzanotte ritrovandosi dirimpetto ilporto il capitano credette bene di non azzardarsi ad entrare, ma bensì di porsi di traverso e aspettare il nuovo giorno onde entrare senza alcun timore. La nave stette tutta la notte con la sola gabbia. Al mattino con il medesimo vento si tenne la corsa per entrare in porto e si diede a fondo un’ancora. Il capitano ordinò di abbassare lo straglio del trinchetto, di tirare le sartie di maestra e di chiudere le vele. Si comincia a scaricare con cautela il marmo trasportato. Pietro il caichio prima scese a terra a far acqua portando allo squero l’albero di mezzana spezzato per farne uno nuovo. Nel frattempo entra in una bettola e al banco di mescita chiese a Lola una birra e un po’ di guisado: sul tavolo una bellezza isolana dai capelli neri ballava il flamenco accompagnata dal suono della chitarra. Gli avventori bevevano boccali di birra mentre Pietro si intrattenne con Lola per fissare un appuntamento per quella sera.

Sul ponte del vascello l’equipaggio si annoiava nell’attesa di continuare il viaggio: uno dei quattro marinai presi di rinforzo disertò; era debitore al capitano di una somma di denaro. Il giorno dopo ritornò Pietro un po’ stordito dopo una notte d’amore con la cameriera della bettola un po’ stordito ma riportando l’albero nuovo per il vascello ala ferma nel porto.

Il nocchiere ordinò di slacciare lo straglio di mezzana e di alzare il nuovo albero, di legare le corde di canapa e di fissare la coffa di mezzana e poi di innestare il belvedere. I marinai abbassarono il picco e fissarono il paterazzo alla carrucola.

Napoleone Bonaparte era diventato, dopo il colpo di stato, Primo Console. La coalizione di Inghilterra, Russia, Austria diede la caccia alle navi francesi mentre le navi mercantili dovevano essere protette da una scorta.

Il camaroto scese a terra a far acqua e su ordine del capitano andò a denunciare alla capitaneria di porto la scomparsa di Stefano il timoniere. Il capitano fece sostituire dagli uomini la nuova gabbia e fissare la tenda della coperta prima di riprendere il viaggio verso la Tunisia. Qui nelle acque di Baihra doveva caricare balle di alfa per le cartiere toscane e pelli per gli artigiani di Firenze.

Giovanni l’11 aprile 1800 scriveva sul rollo di bordo … Tempo chiaro con piccolo vento di libeccio indi si fece variabile. Si piturò il bordo dove era scolorito. Si allestì il fiocco nuovo. Tempo variabile e lo stesso tutta la notte. Fece partenza una fregata inglese con vento maestro seguitando il medesimo vento tutto il giorno… Aveva finito di scrivere quando un ufficiale del porto giunse con una barca per fare indagini sul fuggitivo: si gettò la scaletta e dopo che fu a bordo chiese il nome del marinaio e altre informazioni. Poi scese sul molo.

Mentre i marinai pulivano la nave il camaroto salì a bordo della nave inglese a prelevare delle gallette, ma su un banco del mercato acquistò alcuni pesci per la cucina di bordo.

18 aprile 1800… Vento fresco da Ostro e aria fosca. Si terminò la tenda di coperta. Tutta la notte vento forte da ostro e cielo scuro. Al giorno clama. Si disarmigiò onde salpar l’ancora e dar respiro alla gomena ponendone un’altra meno buona tosto si tornò ad armigiar la nave nel medesimo come prima…. Tutto il giorno piccoli venti variabili e cielo oscuro…

 

 

Il vascello uscì lentamente dal porto di Mahon dirigendosi a sud nel Mediterraneo ma non raggiunse la costa africana. Non sappiamo se affondato da navi militari francesi, da un nubifragio o incagliato in uno scoglio. Il diario termina qui come se la Dama Veneta fosse stata un vero vascello fantasma!

 

 

Armigiar = armeggiare Sagola = cavo per lo scandaglio

Caichio = da caicco, barca a remi Sartia = canapo

Camaroto = cassiere Sciabecco = bastimento a tre alberi

Clama = chiamata Scanner = nave veloce

Coffa = gabbia sopra l’albero maestro Straglio = strallo, canapo

Brich = brigantino Tartana = nave da trasporto e da pesca

Guisado = piatto di carne Trinchetto = albero vicino alla prua

Fiocco = vela

Paterazzo = manovra, corda

TERZO CLASSIFICATO

DAVIDE DEPALO di Sesto San Giovanni (Milano)

 

La vista dell’alce

 

16 agosto, ore 21.08.

Sul pullman c’è un’infornata di turisti meridionali, uno di loro ha appena esclamato “Questi cazzo di nomi terribili che hanno le strade!”. Gridano sguaiatamente. “Non c’è neanche un’indicazione in italiano!”. Siamo arrivati a Stoccolma.

 

Le ragazze canadesi prendono appunti sulla loro Moleskine, un ragazzo di Bolzano ha con sé uno strumento musicale ingombrante, l’uomo sportivo affascinante seduto accanto a me in aereo è sparito subito dopo l’atterraggio. Nemmeno il tempo di provare a dirgli ciao.

 

17 agosto, ore 14.46

Scendendo da nord a sud a piedi, dal vecchio museo del vino al centro, abbiamo pensato a questa città come una specie di fantasma perfetto. Dietro le finestre, le case sembrano decorate tutte con la stessa soluzione di continuità: statuette, piatti, gabbiette. E lampade. Tante, tante lampade. Appoggiate sui bordi come nelle riproduzioni Ikea. Strade perfette e vuote. Una specie di periferia con la maestosità del centro, ma abbandonata. Negozi dismessi e impolverati. Insegne imponenti di grandi aziende. Balconcini a ringhiera con i tavolini, le sedie a sdraio, finestre aperte. E nessuno. Da nessuna parte. Facilmente si scivola nella malinconia. Dove sono gli svedesi? Dove sono gli Stockholmers? Di là dal ponte, girato l’angolo dei palazzoni commerciali grezzi e trascurati, c’è Sergel Torget, la grande piazza. La gente è tutta qui. Dalle vetrate aperte del Kulturhuset c’è il Fringe Festival, qualcuno canta in modo bizzarro e la gente applaude. Stoccolma c’è come sempre. E’ domenica pomeriggio e passeggia in centro. Dobbiamo fare la spesa per la cena di stasera. Un panino a nove euro non si affronta.

 

In radio, Foo Fighters: “Everlong”.

 

18 agosto, ore 00.40.

 

Sensazione di essere lontano. Esattamente dall’altra parte del mondo, anche se alla fine non sono più di 1600 chilometri. Alla fine, il museo del vino non l’abbiamo trovato ma ci riproveremo domani. In compenso siamo stati per circa dieci secondi sulla torre panoramica dei ripetitori televisivi. Tre ore di camminata, centocinquantacinque metri di altezza, vertigini violente. Ma per un attimo, Stoccolma vista dal cielo.

 

Intanto si delinea il personaggio di Raya, viaggiatrice.

 

Ore 13.57.

 

Museo Nobel: “…come la nostra creatività possa essere sfruttata al meglio e cosa possa significare l’ambiente per il processo creativo”, “…aria della cultura del caffè presente a Vienna , Berlino, Parigi”.

Raya scrive cose interessanti per la televisione. Ha un incontro, forse con un uomo, ma non ne vuole parlare. Un italiano litiga al telefono con la sua donna, che è sposata con un altro e ha due bambine.

 

19 agosto, ore 00.39.

 

Raya ci racconta di un cimitero dentro un parco. Skogskyrkogarden. Il senso della morte è come se si disperdesse, ci dice. Ci andiamo. Verde smisurato, le tombe tra gli alberi, come se tutto fosse integrato e immerso nella natura della terra. Cose a proposito del ciclo vitale, le parole svaniscono come certe paure, basta lasciarle evaporare. Chi passa di qua se lo vive come fosse un parco come un altro e ci viene a correre, ci porta il cane, ascolta la musica. E’ bello anche solo passeggiarci dentro e stare in silenzio. E’ patrimonio dell’Unesco. Raya è fuori da tutto il pomeriggio. Forse non dorme qui.

 

20 agosto, ore 00.26.

 

Andiamo a Vastaros, pioggia e diluvio. Fronte del porto, il lago Malaren turbolento e capriccioso. Lontano, il resto della Svezia. Poco fuori città, un villaggio di pescatori, casette bellissime affacciate sul mare. Tornando indietro, Stoccolma di sera in macchina, una sera che piove. Arena. Ericsson Globe. Le luci sul mare di notte. Raya ha dormito fuori e oggi era impegnata negli uffici della tv privata. Su Radio Mix Megapol, Grace Potter & The Nocturnals, “Falling or flying”.

 

21 agosto, ore 23.12.

 

Laundry service. Consegno i panni da lavare, in reception, e penso.

 

Gamla Uppsala, la cima delle colline, paesaggi a perdita d’occhio; il borgo e le strade. Mentre sorpasso i camion penso alle mancate conversazioni, alle conoscenze sfiorate. Come quel ragazzo mezzo sdraiato sul divano, in albergo, che guarda distrattamente la televisione, fissa lo schermo ma sta pensando ad altro. Dettagli. Tutto. Niente. Viaggia con tre ragazze e nessuna di loro sembra essere più di un’amica. Forse, a volte, è solo fatica sprecata. Energia al vento.

 

22 agosto, ore 19 e qualcosa.

 

Abbiamo viaggiato tutto il giorno da Stoccolma a Goteborg. Abbiamo una camera molto grande. Ma dalla finestra vedo una zona industriale, dei capannoni, un paio di fast food vagamente debosciati e questo albergo che sembra il Virgin Motel. Dalla nostalgia struggente di Stoccolma siamo piombati dentro “Animal Instinct” dei Cranberries, senza soluzione di continuità. Cool.

 

24 agosto, ore 19.38.

 

Goteborg è snervante, in macchina, nella sua complessità. All’Espresso House cerchiamo l’unico sandwich nsenza salse ammorbanti. Stefania ci racconta la sua storia di studentessa fuori sede. Le amicizie del campus, i modi di vivere internazionali che si incrociano, le differenze con l’Italia, tutti i soliti motivi per cui spesso sentiamo l’urgente desiderio di andare via. Gli svedesi sputano per strada la bustina da cui succhiano la nicotina, perché fumare fa male. Stefano mi scrive che qui non interessa a nessuno se sei gay o etero. Sei e basta. Di sera , normalmente , si inizia a stare insieme tutti a casa, si beve e si abbattono i costi. Poi si esce e si va in un locale, magari due. E si continua a bere. E’ una verità anche questa.

 

Pomeriggio al mare, a Uddevalla. Nella zona del Bohuslan, a nord di Goteborg. Pioggia torrenziale su strade solitarie. Ma arrivati a destinazione, le parole non servono più.

 

25 agosto, ore 15.30.

 

Zone industriali e imbarchi per la Danimarca. Inizia oggi la seconda settimana in Svezia. Dopo sette giorni, io sono dentro la Svezia. Dentro. Non so di preciso cosa significhi, ma mi viene da dire così. Se cercavamo una storia da raccontare, forse stiamo almeno trovando le parole: lontano, dentro.

 

Ore 00.51.

 

Tyorn. Il ponte. La nebbia delle ore 20. L’ultima casa sulla terra, prima del mare. Spenta la radio, resta un incanto. Non c’è parola, non c’è fotografia che possa trasmetterti il senso pieno di questo spazio. Devi venire tu a vederlo di persona.

 

26 agosto, ore 00.50.

 

Oggi pomeriggio Fjallbacka, dove faceva le vacanze Ingrid Bergman. Sulla costa del Bohuslan ci lasciamo un altro pezzetto di cuore. Sempre un po’ più su, ormai a pochi chilometri dalla Norvegia. Silvia vorrebbe vedere un alce dal vivo almeno una volta. Al settimo chilometro c’è un parco naturale ma abbiamo mancato di poco l’uscita. Cartelli stradali oltrepassati da Goteborg in su: Stenungsund, Uddevalla, Vanersborg, Trollhattan, Tjorn, Ronnang, Fjallbacka. Prima di andare a sud. C’era un ragazzo, alla caffetteria della città. Ha sorriso.

 

28 agosto, ore 12.23.

 

Restituita la nostra macchina all’Avis. 24305 km. Aspettiamo il pullman per tornare a Malmo Central Station e da lì il treno per Copenhagen. Stati d’animo misti.

 

Ore 20.20

 

Hard Rock Cafè: cena pesante oltre ogni tollerabilità. Da quel poco che abbiamo visto, Copenhagen sembra più viva delle città della Svezia. Ma poi, alla fine, chi lo sa. Alla stazione mi è sembrato, per un attimo, di vedere Raya. Per strada c’era qualcosa che sembrava un alce.

 

29 agosto, ore 12.30.

 

Ultimo giorno prima della partenza dal Nord.

 

Ore 22.07.

 

Stanno iniziando a scorrere i primi titoli di coda su questo viaggio.

 

Mare e centri industriali.

 

Fari delle auto accesi, sotto la pioggia.

 

Il grigio sobborgo industriale intorno a Carlsberg. Lo sviluppo industriale dei grandi marchi. Un uomo con l’espressione triste porta in gita la sua famiglia. Sono italiani.

 

Pensieri sui viaggi. Alla fine penso che un viaggio non ti risolva il problema. Però ti offre prospettive e distanze diverse per avere il desiderio di affrontarlo.

 

30 agosto, ore 10.15.

 

Il giorno della partenza.

 

I momenti perfetti esistono.

 

 

 

 

CONCORSO LETTERARIO “PAROLE SUL MARE”

I EDIZIONE

TEMA “IL VIAGGIO”

SEZIONE POESIA

 

PRIMO CLASSIFICATO

FRANCESCO RIZZA di Gravina di Catania (CT)

 

Emigrante a vent’anni

 

In un giorno di vento scirocco a Pachum,

che svettava le poche spighe di grano come bandiere,

scelsi di essere emigrante a vent’anni

con meno di mille lire.

 

Raccolsi mutande e camicie nella valigia di cartone,

lasciai un abbraccio, dal sentore amaro di verde asparago,

a mamma e fratelli, nel mattino fumante ancora di notte.

 

Con le mani dentro tasche bucate

e un passaporto di fresco inchiostro, divenni viaggiante,

attaversatore di confini su mari mai solcati,

a cercar fortuna nell’ Americazuela.

 

Eravamo tanti, nuvole in viaggio dello stesso vento,

sopra nave passeggeri dall’aria di quartiere in festa,

e lo scintillio virulento,

di banconote scarlatte agitate nel cielo.

 

Fummo acqua di mare nelle ventiquattro sere settembrine,

ne bevemmo tanta e veniva sete,

di sentirsi uniti sotto quel cielo nero immenso,

intonando melodie perdute,

intrise dal pianto di compari e amici.

 

L’equinozio d’autunno, forgiò l’estate,

nel nuovo pezzo di mondo.

Le strade erano sogno con il caldo sui vestiti,

riempite dalla voce gelida

di venditori di ghiaccio tritato e limone

e incantevoli donne dalla pelle ebano chiaro.

 

Fu sera, poi fu mattina, fu odissea anni cinquanta.

Mi appigliai alle frange di vela per dodici primavere

e mi lasciai andare nei sentieri blu del mare.

 

Nobilitai albe di lavoro, tra notti insonni e destini

e mai abituai gli occhi,

ad accettare questo paesaggio come mio:

Il cuore era rimasto ad aleggiare in quei luoghi,

dove una volta senza scarpe giocavo,

…e fu un volo a motore, chi mi riportò dalla parte di quei desideri.

 

 

 

SECONDO CLASSIFICATO

MARIA FRANCESCA GIOVELLI di Caorso (Piacenza)

 

La tua ora

 

Ha la tinta stinta del garzone nel granaio

la tua ora, ha il colore blu della tuta da operaio,

quando sentivi la fabbrica e l’aria di Milano

e correva sul ferro veloce la tua mano.

E’ rimasta la tua ora, nei palazzi di periferia,

nella tua voglia di restare e di fuggire via

e ritorna come la speranza di quella mattina

quando partisti portando dentro la collina.

Come l’autostrada aveva il sapore del ritorno

mentre nel rosso sfumava la luce del giorno,

la tua ora si trovava nei sogni oltre l’orizzonte

nella tua voglia di casa, sulla cima del monte.

Risuona la tua ora nella voce dei fratelli

che sono partiti prima di te, coi loro fardelli,

ma la sento ancora come un segno che resta;

sulla collina è rimasta aperta la finestra.

 

 

 

 

TERZO CLASSIFICATO

VERA PALOMO di Varazze (Savona)

 

Come Ulisse

 

Davanti al mare il tuo pensiero vola

verso quelle lontananze dove sorge

il sole che da noi tramonta,

oltre le mura del cielo e l’orizzonte.

Abbandonati al mare e all’ignoto,

sfida il vento e la sua assenza,

spiega le tue ali e vola libero

uccello bianco sulla spuma del mare!

Lancia i tuoi sogni come aquiloni,

oltre le infide colonne misteriose,

segui come un delfino giocoso

le vie dell’acqua fino alle spiagge bianche,

alle foreste fiammanti di corallo.

Porta poco bagaglio, il filo dei ricordi,

nessun rimpianto, non ti voltare.

Ti penserò tra genti e prati sconosciuti

curioso di ogni strada ed esperienza,

dopo un viaggio lungo come un’odissea

tornerai pago finalmente alla tua Itaca?

Conserverò nella mente il tuo sorriso,

al cuore nell’attesa basterà.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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